Il varo dei viadotti: dal basso o a spinta
L’occasione fornita da “Lo strutturista” ci consente di presentare un contributo reale su una questione molto discussa

Le modalità di varo di ponti e viadotti, in genere di opere di attraversamento aeree, per lo scavalco di un impedimento intermedio continuo, che non può essere interrotto, definito vincolo naturale (il mare, un lago, un fiume, una vallata, ecc.) oppure oggettivo, quale una rete di trasporto o di servizi (ferrovia, autostrada, elettrodotto, ecc.).
Le modalità comunemente praticate, per realizzare l’opera in quota nel suo assetto finale, sono duplici: sollevare le singole componenti dal basso, oppure varare il manufatto composto nell’area retrostante una delle due spalle e farlo avanzare a spinta dal retro.
Studiosi di tempi trascorsi hanno sostenuto una netta divisione tra queste due modalità di varo dei viadotti, affermando categoricamente che il varo a spinta è antieconomico per lunghezze inferiori a 200 ml, senza precisare se con questa misura ci si riferisse alla lunghezza totale del viadotto, oppure la luce libera tra le pile.
Questo distinguo oggi non appare avere rilevanza, in quanto, a seguito della trasformazione intervenuta nel mondo delle costruzioni, con l’industrializzazione dell’edilizia, attraverso la prefabbricazione di componenti in officina, entro limiti di dimensioni e pesi trasferibili nei cantieri, le modalità di montaggio e varo si basano su altri parametri e condizioni.
Due recenti opere realizzate in Italia, aventi entrambe una lunghezza di diverse centinaia di metri, hanno adottato due diverse modalità di montaggio e varo, determinate dall’ambiente di lavoro: il ponte di Genova è stato costruito in cantieri navali, trasferito via mare in dimensioni (lunghezze e pesi elevati), e sollevato dal basso, mentre il ponte sul Po a Piacenza sulla Via Emilia, è stato varato a spinta, assemblato dietro la spalla, in una officina di montaggio costruita sul posto. […]
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