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Equo compenso: il professionista può rinunciare alla propria tariffa

Con la Sentenza della Corte di Cassazione, la rinuncia al compenso professionale non annulla il vincolo contrattuale.

25 Giugno 2018
equo compenso
Redazione calcolostrutturale.com
La redazione di calcolostrutturale.com è composta da ingegneri edili, copy strategist ed esperti di marketing e comunicazione.

La Sentenza 14293/2018 del 4 giugno 2018 della Corte di Cassazione è destinata a far parecchio discutere. Dopo che l’ANAC si era espressa sull’equo compenso in merito al BIM arriva un duro colpo per i tecnici: nel documento della Corte infatti, si afferma ancora una volta che un professionista può liberamente rinunciare al proprio compenso professionale e che tale atto, non invalida il contratto in essere ma può essere sanzionato solo dall’Ordine di appartenenza.

Il caso specifico

Il fatto riguarda un architetto che richiedeva il pagamento della parcella prestazionale di 151mila euro a seguito della progettazione e direzione lavori di un centro commerciale. Tale compenso però, secondo la difesa, era stato concordato per una cifra minore con il professionista pertanto non ritiene giustificato l’aumento di tale importo.  L’architetto inoltre, per ottenere la cifra richiesta, si era rivolto alla compagnia assicurativa Lloyd che aveva rigettato la sua istanza.

La sentenza della Cassazione

“Nella disciplina delle professioni intellettuali, il contratto costituisce la fonte principale per la determinazione del compenso, mentre la relativa tariffa rappresenta una fonte sussidiaria e suppletiva, alla quale è dato ricorrere, ai sensi dell’art. 2233 c.c., soltanto in assenza di pattuizioni”.

La Cassazione inoltre afferma:

“Il primato della fonte contrattuale impone di ritenere che il compenso spettante al professionista, ancorché elemento naturale del contratto di prestazione d’opera intellettuale, sia liberamente determinabile dalle parti e possa anche formare oggetto di rinuncia da parte del professionista, salva resistenza di specifiche norme proibitive che, limitando il potere di autonomia delle parti, rendano indisponibile il diritto al compenso per la prestazione professionale e vincolante la determinazione del compenso stesso in base a tariffe. Nella normativa concernente le professioni di ingegnere ed architetto manca una disposizione espressa diretta a sanzionare con la nullità eventuali clausole in deroga alle tariffe e, sul piano logico, le norme sull’inderogabilità dei minimi tariffari sono contemplate non a tutela di un interesse generale della collettività ma di un interesse di categoria, onde per una clausola che si discosti da tale principio non è configurabile – in difetto di un’espressa previsione normativa in tal senso – il ricorso alla sanzione della nullità, dettata per tutelare la violazione d’interessi generali. Il principio d’inderogabilità è diretto ad evitare che il professionista possa essere indotto a prestare la propria opera a condizioni lesive della dignità della professione (sicché la sua violazione, in determinate circostanze, può assumere rilievo sul piano disciplinare), ma non si traduce in una norma imperativa idonea a rendere invalida qualsiasi pattuizione in deroga, allorché questa sia stata valutata dalle parti nel quadro di una libera ponderazione dei rispettivi interessi (Cass. n. 15786 del 2013)”.

In definitiva, la Corte di Cassazione, dichiara che un ingegnere o architetto possano rinunciare al proprio compenso se lo ritengano opportuno e che gli stessi non sono soggetti a denuncia se non a eventuale sanzione del proprio ordine in quanto “condizioni lesive alla dignità professionale”. La questione annosa dell’equo compenso ha scritto un’ulteriore pagina triste e svilente per tutti i liberi professionisti italiani.

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